
Blog Novel by Mamma Fenice, 2ª puntata – La Chiamata
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Il momento storico della chiamata furono gli anni ’90.
Anni segnati dalla caduta del muro di Berlino e dalla riunificazione della Germania; ma anche dall’inizio della guerra in Jugoslavia e delle guerre del golfo; nonché degli accordi per fermare la corsa dello scudo nucleare tra America e Russia.
Vivevamo tempi interessanti: l’equilibrio del mondo si capovolgeva, chi era tranquillo si trovava in guerra, chi era disperato si riuniva ai parenti.
Non c’era più nessuna certezza.
Io, nel 1990, incontrai mio marito. Sarà un caso?
In quel periodo ero irrequieta. Il problema non era il lavoro.
Il lavoro in ufficio era interessante, stressante ma con un buon team: si cooperava, eravamo votati a raggiungere obiettivi sempre più ambiziosi.
Lavoravamo con lo scopo di raggiungere l’obiettivo, non l’orario di uscita.
Uscivamo insieme a cena; magari entravamo più tardi al mattino, ma succedeva di lavorare fino a notte fonda.
Però era un lavoro la cui unica soddisfazione era il fatto che potevo svolgerlo bene; non mi arricchiva come persona. E io volevo di più.
Volevo trasmettere qualcosa a chi mi circondava
Volevo lasciare la mia impronta nella sabbia.
Conobbi l’uomo che sarebbe diventato mio marito.
Colpo di fulmine. Entrambi molto razionali, vogliamo le stesse cose. Iniziamo subito una nuova famiglia. La progettiamo proprio per benino: l’appartamento equidistante dai nostri rispettivi lavori e dalle mamme/suocere, un bel giardino, un grande tavolo per gli amici, e via discorrendo.
Ed ecco la famosa voglia di maternità: quell’ansia che ti prende dentro, che ti fa gridare
Voglio un bimbo, voglio un bimbo!
Ti vengono gli occhi tarati per notare le carrozzine, per stimare i pancioni delle altre, per fare le moine anche alle bambole e non solo! Per commuoverti davanti alla gatta coi suoi micini, per accompagnare la vicina anziana a comprare le ciabatte, o addirittura per portarle la minestra.
La chiamata
Sono incinta, aspetto un bambino!
Sono a letto, però: gravidanza a rischio, ci sono complicanze.
Il mio mondo vicino è ribaltato, specchio del mondo lontano… specchio del telegiornale…
Da iperattiva a ferma ma… la testa continua a correre per conto suo. Forse troppo.
In ospedale incontro delle altre donne in dolce attesa, di etnie diverse. La camerata sembra un bazar.
Facciamo gruppo, facciamo caos. Mi leggono la mano, io racconto come mia nonna passava i vermi.
Chi può muoversi aiuta le altre; mi imboccano, mi sento parte di tradizioni diverse, lontane da me.
Riscopro un mondo non fisico, legato agli avi, alle dee, alle superstizioni.
E’ facile, nel grembo sicuro della nostra casa, bollarle come sciocchezze. Quando ero là, però, immersa nel dolore e nella paura, col tempo dilatato, la realtà era decisamente diversa.
Il mio mondo si è definitivamente ribaltato. Le priorità anche.
Le cose non sono più importanti; lo sono le persone.
La Provvidenza: mi sono accorta che esiste. Il prossimo è fin troppo partecipe dei fatti miei.
Quando torno a casa ho sempre troppo tempo per pensare.
Confronto la mia casa, la mia camera, il mio sofà, comodi, caldi… Li confronto con posti immaginari di altri paesi.
Mi rendo conto di essere nella parte del mondo fortunata e decido che cercherò, per quel bimbo che sta crescendo in me, di cambiare il mondo: di farlo più uguale ma soprattutto di non permettere che ci dimentichiamo di quanto siamo fortunati a nascere da questa parte.
Il mio voler cambiare il mondo, da donna gravida costretta a letto, sembra un’utopia
Sembra un bambino che, con un cucchiaio, vuole vuotare il mare.
Ma io voglio cambiare il mio mondo, quello fortunato. Voglio che si renda conto di quanto siamo fortunati.
Di quanto stiamo bene; del fatto che stiamo rovinando tutto con la nostra avidità; che, anche se potremmo stare bene, viviamo scontenti.
Ovviamente sono un groviglio di emozioni e ormoni: non mi posso muovere, ho mal di schiena, piango per niente, ho le idee confuse e non mi sento di certo contenta.
Mi ricordo delle ragazze in ospedale con me.
Ce n’era una, forse marocchina, che mi diceva che lei era la regina, per suo marito. Che lo scopo della vita era la famiglia, i figli. Magari ci siamo capite male per la lingua, ma gli occhi che brillano parlando di quello che vogliamo nel cuore non si possono fraintendere…
Anche le zingare, i figli, la famiglia, l’importanza del passato che vivrà nel futuro: sono concetti importanti dell’essere donna. Un gioco fatto con un pendolino ha predetto il numero e il sesso dei miei figli.
Vero o falso? Fortuna, predizione o casualità? Mistero.
So che voglio un mondo migliore, in cui nessuna verrà insultata dagli sguardi prima che dalle parole per il solo fatto di essere diversa di pelle. In cui io, per prima, non sono più ritrosa ad aprirmi per paura di chi non conosco.
Sono andata in ospedale con poco; quando le ho viste ho avuto paura del mio poco, loro hanno diviso con me le loro cose.
Mi vergogno ancora adesso dei miei pregiudizi. Vorrei un mondo capace di vergognarsi.
Conclusione: voglio cambiare il mondo perché così mi sta stretto.
Così non mi va bene, ci vivo male.
Non sono più indifferente a quanto mi sta intorno; le cose importanti per me sono cambiate.
Sarà perché ho avuto modo e tempo per riflettere e affrontarle. Per la voglia che il futuro sia migliore per i miei figli e per quelli delle mie amiche. Sarà perché sto maturando. O perché i tempi storici sono “interessanti”…
Mamma Fenice
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