
Blog Novel by Mamma Fenice, 8ª puntata – Abisso, calvario
Come periodo storico eravamo nel 2010, più o meno.
Cosa succedeva nel mondo? Boh!
Cosa succedeva in casa mia?
I figli erano adolescenti, iniziavano gli scontri. Fuori casa altri scontri: con i volontari con cui ci occupavamo di altri ragazzi.
A scuola i ragazzi avevano dei problemi, tutti i ragazzi; erano cominciati gli incontri con psicologi vari e mi avevano sbattuto in faccia una insopportabile verità: quel che avevo fatto fino a quel momento, a livello educativo, non andava bene. Non solo la mia, ma la nostra genitorialità era tutta da rifare.
Crisi
Si potrebbe discutere moltissimo sul modo migliore di fare il genitore, ma a me in quel periodo crollò il mondo addosso. Tutto, ma proprio tutto quello che facevo e che avevo fatto, tutte le mie idee a cui ero tanto legata, non andavano più bene. E oltre a non andar bene, facevano addirittura del male a me e agli altri.
Decisi di fermarmi per capire come fare. Mi sentivo sfinita, forse stavo entrando anche in menopausa; ma non avevo le idee chiare nemmeno su questo.
Visite varie e, pure sul tema menopausa, una situazione scoraggiante: intellettualmente, tutti volevamo credere che non fosse una malattia o qualcosa del genere, in cui relegarmi per il resto della vita, ma sotto sotto tante cose non tornavano.
Avevo l’impressione che tutti quelli che mi circondavano volessero solo spillarmi soldi e risorse emotive.
Ma ci vogliono davvero degli esperti per gestire la mia vita?
In quel deserto affettivo ed emotivo, me lo chiedevo. Non sapevo la risposta. Sapevo solo che, di punto in bianco, non ne azzeccavo più una.
Il rapporto con i miei adolescenti diventava sempre più faticoso; io mi ritiravo in me stessa, mi rifiutavo di fare le cose, facevo il minimo indispensabile.
Finché un giorno la dottoressa di famiglia mi trovò sul sofà che puzzavo. Letteralmente. Non so come avessi fatto ad arrivare a quello stato, ma la diagnosi è depressione.
Famiglia e depressione
Tra il mio star male con gli altri e il lasciarmi andare, penso siano passati un paio d’anni; forse un po’ meno. Di certo so che ho fatto un annetto di cure per “rimettermi in riga”.
Quando penso a quel periodo, ricordo che mi premeva il non voler stare male: il rifiutare di fare le cose emotivamente più faticose, il non voler uscire, non voler parlare, non incontrare gente.
Il sentirmi vuota, finita, stanca, spenta, esausta, esaurita, apatica e asociale.
Il vivere immersa in una sorta di forte raffreddore in cui non ci sono odori, desideri, sapori… e in cui i suoni sono ovattati.
Il bozzolo del non sentire intorno a me. Il non voler sapere.
Una bolla in cui non ci sono più passioni, calore, freddo; in cui il tempo scorre con un ritmo diverso.
Hai presente le stazioni del treno?
Quando aspetti ma sai di essere sul binario giusto, cinque minuti possono dilatarsi fino a diventare l’infinito.
Ma per chi sta arrivando di corsa è diverso. E lo è anche per chi non sa se quello in cui sta è il binario giusto.
Ecco, io vedevo gli altri correre senza senso, come formiche. Mi sentivo diversa? No. Mi sentivo indifferente.
Mi lasciavo scorrere la vita addosso, e intorno, senza accorgermi di quel che facevo.
Proprio io: che ero sempre presa da una passione nuova, con mille cose da fare, da vedere, mille posti in cui viaggiare e mille persone da incontrare.
Penso che, se è capitato a me, può capitare a tutti. E i diecimila esperti che si son fatti i fatti miei all’inizio avrebbero bisogno di studiare ancora un bel po’ su come rapportarsi agli altri e su come prevenire questa cosa, questo male subdolo.
Viviamo in una società in cui il tabù non è il sesso, ma il dolore; non è la moralità ma i sentimenti.
Siamo capaci di vivere in casa con altre persone e comunicare solo per questioni “di servizio”, completamente indifferenti a chi ci sta affianco.
Non siamo neppure noi stessi in prima persona capaci di ascoltarci e capirci. Forse è troppo facile non guardare, non pensare e correre dietro alla vita.
Mamma Fenice
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